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«La misura è colma: o si cambia, o davvero si rischia la vita, e non solo per il Covid 19». Lo scriveva Claudio Risé sulla Verità il 6 dicembre scorso e lo ribadisce oggi a Tempi, «è in atto un disastro antropologico, un completo rovesciamento della realtà del vivere». È passato un anno e il percorso di chi cammina, si muove, esiste, è ancora ingombrato dalle vittime della pandemia. Non c'è stato alcun impegno a vivere in loro nome e onore, scriveva il grande psicanalista:
«I morti sono stati invece utilizzati per controllare i vivi: ci hanno spiegato che dovevamo smettere di lavorare, non andare più a messa, non cantare, interrompere ogni attività, per rispetto verso di loro, i morti per il Covid. In ciò, però, non c'è né il lutto, né la sua elaborazione. C'è solo il tentativo di fermare la vita, la moltiplicazione della paura e l'invito alla passività. (…) Elaborazione del lutto vuol dire partecipare profondamente e con serietà a una fase drammatica per le persone e la collettività, e trasformarla in comportamenti e attività con nuove direzioni e forme di vita, più sane e forti. (…) L'istinto vitale ti porta a voler vivere con pienezza l'esistenza con le sue difficoltà, così come a elaborare seriamente il lutto per i morti, che poi ti impegnano ancora di più nella vita e nella sua continuazione. Il resto sono acrobazie mentali, che nascondono un sostanziale egoismo e uno sguardo terrorizzato sull'esistenza».
DAI MORTI COME RICATTO DI MASSA AL DISPREZZO PER IL LAVORO DELL'UOMO
È un gran pezzo, questo sul tema delle vittime della pandemia ridotto a mero fatto contabile o arma di ricatto di massa da parte di un governo che per mesi ci ha propinato un'unica icona: «L'arresto, la stasi: tutti fermi, a casa, in tuta o pigiama, con la barba lunga come i propri ministri, confidando in eventuali successivi rimborsi, e riaperture, ormai neppure troppo sperate». Di contro, non è stata tentata alcuna riconversione produttiva nel piano di "gestione della pandemia", nessuna valorizzazione degli sforzi di chi chiedeva solo disperatamente di lavorare: l'assenza di mete, di orizzonti e «fatiche sensate» è culminata, il weekend scorso, nella proroga delle chiusure decisa in extremis (leggi: con solo 24 ore di preavviso) dal ministero della Salute, rigettando nella disperazione gestori degli impianti e lavoratori della montagna.
Sacrifici economici, investimenti, contratti, per adempiere ai protocolli di sicurezza: tutto è andato in fumo, tanto, assicurano dal ministero, "arriveranno i ristori". «Che visione meschina e grettamente materialista dell'uomo», commenta a Tempi Risé, «la cifra più evidente, in mezzo questa glorificazione dei lockdown, delle chiusure, del procione come eroe dei giorni nostri, è il disprezzo per il lavoro: il disprezzo della condizione dei lavoratori, del loro bisogno di lavorare per vivere, ma anche il disprezzo del senso del lavoro per la vita umana, trattato alla stregua di un peso dai cui i vari comitati di salvezza nazionale ci vogliono graziosamente liberare costringendoci a tapparci in casa con la mancetta del ristoro. Come se il lavoro non fosse un'esperienza vitale, non solo educativa e di apprendimento: un'espressione di sé, assolutamente centrale nella vita umana».
SALUTE E DIVANO. LA RIDUZIONE A PROCIONI SENZA DESIDERI
Risé cita studi a dozzine, in tutte le lingue e provenienti da tutte le parti del mondo, sull'altra pandemia, quella innescata dalla svalutazione degli effetti psicologici dati dall'annichilimento della forza vitale dell'uomo: qualcosa di profondo sta ammalando l'uomo-procione che ha preso a relazionarsi con l'impresa del vivere e l'altro attraverso gli schermi, «malattie per le quali non c'è ancora il vaccino, come le psicosi, sviluppi depressivi, deliranti, dissociativi. La Genesi non è uno scherzo ha un senso che l'uomo debba guadagnare per vivere, procurarsi cibo col sudore della fronte. Non si tratta di una punizione o di un peso ma di una realtà antropologica. E le neuroscienze spiegano bene come a un'attività che sottopone le persone a sforzi, impegno, corrisponda un determinato sviluppo cerebrale, mentre allo stare sul divano ne corrisponde un altro, molto più misero e problematico».
Una visione parziale dell'uomo dominata dalla malafede e dal lockdown come destino: lo shopping diventa "selvaggio", gli assembramenti "intollerabili, irrazionali, ingiustificabili", gli sciatori (o i runner, i turisti, gli amanti del calcetto, i giovani) "irresponsabili", andare a messa a mezzanotte a Natale "un'eresia", andare ai musei vaticani significa creare un "carnaio infernale", perfino il tempo delle vacanze è propizio alle chiusure perché "non si lavora e non si va a scuola", «ma questa semplificazione della complessità del reale è figlia della riduzione di uno sguardo sull'uomo: il legislatore, o chi per lui, proietta sugli altri la povertà del suo ragionamento, come se il tempo libero, la vacanza, non fosse un tempo significativo per la libertà. Come se al di là dello stare fermo in casa, dotato di pc o smartphone per lavorare o studiare, l'uomo non avesse obiettivi o desideri oltre alla tutela della salute. Ma il senso della vita non è evitare la morte».
LA FIFA CHE DIVENTA VIRTÙ, IL DELIRIO DI EVITARE LA MORTE E LA CROCE
Mentre le cronache vengono abitate dalle prime vittime dei lockdown "antivitali", bambini e ragazzi scomparsi dalle strade e finiti a ferirsi o tentare di uccidersi (a volte riuscendoci) in cameretta, la paura celebrata come virtù adulta – «ma che non è altro che la vecchia viltà, la volgarissima fifa, il non assumersi la responsabilità della situazione e scaricarla vigliaccamente sugli altri», come ha ribadito Risé in un altro pezzo perfetto) – ha aperto la strada all'astio verso chiunque voglia tornare libero.
«Eppure la vita – ci spiega il professore – altro non è che un grande rischio, una lotta per la sopravvivenza continua, una prova da attraversare dalla nascita in poi. Grandi sono le gioie e le sue ricompense, eppure non possiamo assolutamente evitare l'aspetto rischioso e definitivamente doloroso che la vita ha in sé. Gesù Cristo muore in croce, si incarna entrando nel corpo dell'uomo mortale: perfino il figlio di Dio muore e la sua vicenda è quella della storia di ogni singola persona, di ogni singolo paziente. Questo delirante evitamento della morte, del dramma umano, è una delle cifre della modernità a partire dalla Rivoluzione francese in particolare in poi: uscire dalla sofferenza per costruire una vita di piacere, sonnolenza e tranquillità. Ma questa è una vita del tutto immaginaria. Quella al rischio, al dramma, alla morte è un'immunità immaginaria. Giusto è difendersi con tutti i mezzi anche offerti dalla scienza a nostra disposizione, ma noi non saremo mai immuni, saremo sempre morituri. È il segno tragico e al contempo di grandezza di tutta la storia umana. Anche il procione, questo eroe dei giorni nostri, alla fine muore. La vita non è una malattia. E viverla riparati da quattro mura non ci renderà immortali».
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