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La sentenza della Corte Costituzionale di mercoledì scorso, che depenalizza parzialmente il suicidio assistito, tradisce i principi originari della nostra Costituzione. Al tempo stesso, l'obiezione di coscienza dovrebbe rimanere salvaguardata. A sottolinearlo è Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita e prorettore dell'Università Europea di Roma. Intervistato da Pro Vita & Famiglia, il giurista ha anche rilevato che eventuali derive bioetiche sul fine vita, comunque, molto dipenderanno dalla direzione in cui intende legiferare il Parlamento.
Professor Gambino, ritiene che questa sentenza della Consulta sia in linea con i principi della nostra carta costituzionale oppure li tradisca?
«Certamente la nostra tradizione giuridica, fino ad oggi, ha sempre avuto una visione dei "valori inviolabili" strettamente legata alla vicenda della persona umana e, quindi, alla sua dimensione esistenziale e relazionale ma direi soprattutto oggettiva. La nostra giurisprudenza ha sempre considerato la persona come un bene giuridico in sé. Adesso, però, si sta affacciando una nuova lettura, secondo la quale la persona è fatta anche e soprattutto della sua volontà e della sua libertà. In questa nuova lettura, che i giudici costituzionali hanno espresso con la sentenza di mercoledì scorso, la dignità della persona non è più ancorata alla persona in quanto tale ma anche a ciò che la persona percepisce di se stessa. Se seguiamo lo spirito originario dell'articolo 2 della carta costituzionale, che fu scritto da Giorgio La Pira, la concezione era proprio la persona come valore in sé, in quanto venivamo da un periodo storico in cui era stata annientata la persona, quindi bisognava preservarla a prescindere dalla sua volontà. Oggi siamo di fronte a un vulnus culturale che sta stravolgendo quella lettura. Possiamo dire che questo nuovo spirito sia contrario all'articolo 2 della Costituzione, perché riteniamo che la miglior garanzia per la persona sia nel tutelarla, anche quando la sua volontà andrebbe a realizzare un atto autodistruttivo. L'autodistruzione, però, non è nell'interesse della persona perché porta al suo annullamento. Il tema di fondo è quello della sofferenza e del dolore: si fa molto leva su questo tema e, in questo senso, non c'è dubbio che in Italia bisognerebbe fare moltissimo riguardo alla terapia del dolore e alle cure palliative».
La Corte Costituzionale ha quindi sollecitato il Parlamento a pronunciarsi con una legge ad hoc sul fine vita. L'intervento del legislatore rischia di accelerare la deriva etica prodotta dalla recente sentenza o, al contrario, potrebbe contenere il danno?
«È molto difficile prevederlo. Dipenderà dalle opzioni culturali che oggi offre il Parlamento. Se tra i parlamentari prevarrà una linea pro-eutanasia, è chiaro che se il Parlamento si rivelerà favorevole all'eutanasia, andremo incontro a un peggioramento di questa sentenza (che riguarda il suicidio assistito, quindi non contempla il coinvolgimento sicuro del servizio sanitario e la sentenza fa capire che bisognerà coinvolgerlo). Se invece dovessero emergere delle maggioranze che puntano a limitare al massimo questa vicenda del suicidio assistito e quindi a farla valere come eccezione e non come regola, allora l'approvazione di una legge sarà sicuramente auspicabile».
Ci sono pericoli per l'obiezione di coscienza?
«Nell'ordinanza che ha preceduto la sentenza, c'era espressamente scritto che, alla luce di questa apertura, si sarebbe dovuto pensare anche al tema dell'obiezione di coscienza. Dal comunicato di ieri non è venuto fuori nulla. Io comunque ritengo che nella sentenza finale ci sarà evidentemente spazio per l'obiezione di coscienza. Se non ci fosse, ciò contrasterebbe con la nostra carta costituzionale e anche con la deontologia della professione medica».
Possiamo essere dunque ottimisti, almeno su questo punto?
«Secondo me sì. Se i giudici saranno fedeli a quanto scritto nell'ordinanza, è probabile che nella sentenza ci sarà un capitoletto dedicato anche alla necessità di introdurre l'obiezione di coscienza».
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