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Il ragionamento è semplice. Esiste internazionalmente il noto "principio di precauzione": questo dice che quando su una sostanza o su un trattamento esistano dubbi sulla sua innocuità sulla popolazione, è colui che la promuove che deve dimostrare la mancanza di effetti negativi. Ora, sulla cannabis i dubbi sono tanti e possiamo dire che non si tratta di dubbi, ma di certezze.
La rivista JAMA Psychiatry, lo scorso 6 giugno, riportava che la cannabis aumenta il rischio di psicosi nei giovani, e non solo in quelli predisposti familiarmente, come si pensava finora. Ma basta fare una ricerca della letteratura scientifica in merito, per vedere che la cannabis è associata ad aumento di rischio di varie patologie, da quelle polmonari e cardiache a quelle sopraddette psichiatriche; il che non vuol dire che tutti quelli che la assumono si ammaleranno, così come non vuol dire che tutti quelli che bevono alcol avranno una cirrosi al fegato; ma il rischio aumenta di molto rispetto alla popolazione generale.
Ora, con queste basi, sarà chi vuole introdurre la cannabis leggera che deve dimostrare con i numeri alla mano che invece non fa male; se produrrà studi significativi e seri, se ne terrà conto.
Ma c'è un altro fattore da considerare al contempo: il fattore banalizzazione. Perché da troppe parti si parla di cannabis come sostanza innocua da liberalizzare: parlare di una cannabis leggera che si può fumare è come parlare di un whisky leggero che si può prendere prima di guidare. Non solo aumenta il rischio di confusione tra quello leggero e pesante, ma aumenta anche il rischio di pensare che ci sia un effetto di gradualità: se "leggero" va bene, allora perché non dovrebbe andar bene "leggero più 1"? E perché non "leggero più 2"? E così via.
E la pubblicità del "brand" cannabis, seppur seguita dal termine "light", resta nel cervello del consumatore come pubblicità alla cannabis, come se non bastassero magliette, cappellini, canzoni, rappers eccetera che osannano la canapa da cui si ricava il principio psicoattivo.
A questo punto occorre un intervento ancora più chiaro, di prevenzione delle dipendenze a tutto tondo e di informazione sui rischi delle droghe: ci sembra molto importante che l'Organizzazione mondiale della sanità abbia inserito proprio in questi giorni la ludopatia tra le patologie mentali, e pensiamo che chi governa la sanità dovrebbe muoversi di conseguenza, proibendo o limitando legittimamente la pubblicità a tutto quello che possa far incorrere in questa malattia della volontà umana. Così come delle altre dipendenze: alcol e droghe in primis.
In quanto a chi fa confusione tra possibili capacità terapeutiche della cannabis e la sua innocuità, ricordiamo che le prime sono ancora da dimostrare su studi allargati e randomizzati e su patologie che non siano limitate a cure già fruibili con altri farmaci (se ce ne saranno, sarà nostro interesse farli conoscere; ad oggi pare esistano solo studi ancora da confermare con altri, sull'utilità nelle contrazioni da spasmi in certe patologie).
Riguardo l'innocuità, anche se la cannabis un domani trovasse qualche impiego clinicamente utile in via controllata, su ricetta medica e privata delle sostanze attive pericolose, questo non significherà che fumare uno spinello faccia bene: sarebbe come pensare che, siccome l'aspirina si ricava dalla corteccia del salice, per far passare la febbre basta prendere un salice, tagliarne la corteccia e farsi una tisana con quella pianta.
Su Avvenire, martedì 26 giugno 2018, Roberto Colombo spiega perché anche moralmente l'uso di droga è sbagliato.
Il recente parere espresso dal Consiglio superiore di sanità contrario alla vendita della cosiddetta "cannabis leggera" (tetraidrocannabinolo a basse concentrazioni: 0,2-0,6%) continua a far discutere. Sulla pericolosità per la salute fisica e psichica (il «fare male»), in particolare dei giovani e giovanissimi consumatori di cannabis, anche di questa forma di assunzione in posologia ridotta della droga sono già intervenuti sulle colonne di "Avvenire" i medici e ricercatori Silvio Garattini e Carlo Bellieni. Al di là del danno psico-fisico, resta però la domanda morale (l'«essere un male») cui non si può sottrarre un genitore, un educatore, un pastore, un responsabile della vita civile di un popolo e, non per ultima, la coscienza di un giovane o di un adulto che si trova di fronte alla tentazione o alla decisione di assumere una sostanza stupefacente per scopo non clinico. Sul piano antropologico ed educativo, la domanda sul bene e sul male non è certo una cenerentola rispetto a quella sanitaria sul fare bene e sul fare male. Anzi, essa assume una rilevanza profonda e determinante per la libertà del soggetto in ordine alle conseguenze personali di una azione su sé stesso, sugli altri e sulla comunità umana di appartenenza.
Nell'udienza ai partecipanti alla 31esima edizione dell'International Drug Enforcement Conference che si svolse a Roma nel giugno 2014, papa Francesco così si espresse: «Il flagello della droga continua a imperversare in forme e dimensioni impressionanti, alimentato da un mercato turpe, che scavalca confini nazionali e continentali. In tal modo continua a crescere il pericolo per i giovani e gli adolescenti. Di fronte a tale fenomeno, sento il bisogno di manifestare il mio dolore e la mia preoccupazione». E aggiunse: «Vorrei dire con molta chiarezza: la droga non si vince con la droga! La droga è un male, e con il male non ci possono essere cedimenti o compromessi. [...] Le legalizzazioni delle cosiddette "droghe leggere", anche parziali, oltre a essere quanto meno discutibili sul piano legislativo, non producono gli effetti che si erano prefisse». Concludendo, «intendo ribadire quanto già detto in altra occasione: no a ogni tipo di droga. Semplicemente. No a ogni tipo di droga». La ragione del deciso "no" di papa Bergoglio «a ogni tipo di droga» si radica nella negatività antropologica e morale che l'assunzione di stupefacenti rappresenta per la vocazione della persona all'amore autentico e alla vita come dono. San Giovanni Paolo II nel 1991 lo disse con altrettanta chiarezza: «Non si può parlare della "libertà di drogarsi" né del "diritto alla droga", perché l'essere umano (...) non ha il diritto di danneggiare sé stesso», ma soprattutto «non può né deve mai abdicare alla dignità personale che gli viene da Dio!». Le assunzioni di droghe – proseguiva – «non solo pregiudicano il benessere fisico e psichico, ma frustrano la persona proprio nella sua capacità di comunione e di dono. Tutto ciò è particolarmente grave nel caso dei giovani. La loro, infatti, è l'età che si apre alla vita, è l'età dei grandi ideali, è la stagione dell'amore sincero e oblativo».
Nel caso dell'assunzione di cannabis, come di ogni altra sostanza stupefacente, non è questione di milligrammi o di concentrazioni, di parti anziché della dose intera. È in gioco l'intero della persona, dell'adulto come del giovane e dell'adolescente, la sua libertà in crescita, il suo cammino individuale e comunitario, il compito che esercita o che l'attende nella società. La questione ultima è il bene contrapposto al male, non ciò che fa bene o fa male. Queste due sono questioni penultime, ma non per questo irrilevanti o marginali. Ma l'ordo amoris – integrale e non frammentabile – trascende e invera ultimamente la cura della propria salute e di quella altrui.
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