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Ieri si è avuta la conferma che la storia della povera donna veneta costretta a 23 tentativi a vuoto prima di trovare un ospedale che la facesse abortire, era – per dirla con una espressione di moda – tutta una bufala. Certo, per trovare il giusto spazio alla notizia occorreva andarsi a spulciare la stampa locale o le edizioni regionali dei grandi quotidiani, ma c'era da aspettarselo. Semmai il fatto vero, su cui a questo punto vale la pena interrogarsi, è il seguente: perché gli abortisti mentono sempre? Cosa spinge così sistematicamente i favorevoli alla cosiddetta interruzione volontaria di gravidanza alla menzogna? La domanda, si badi, è tutto fuorché provocatoria dal momento che è chiara, in Italia ma non solo, una consolidata tradizione menzognera abortista.
Una tradizione che ha preceduto la legalizzazione dell'aborto dato che risale a quando si diceva che ogni anno, a causa dell'aborto clandestino, in Italia morivano circa 20.000 donne. Peccato che l'Annuario Statistico del 1974 quantificasse le donne in età feconda (dai 15 ai 45 anni) decedute nell'anno 1972, prima cioè della Legge 194, in 15.116 e spiegasse come le morti riconducibili a dinamiche legate alla gravidanza o parto fossero 409: sempre troppe, intendiamoci. Tuttavia, inutile negarlo, un numero svariate decine di volte più contenuto di quello propagandato dagli abortisti per terrorizzare gli Italiani sull'emergenza degli aborti clandestini, pure quelli stimati – tanto per cambiare – abbondando alla grande con gli zeri. Un'altra bufala clamorosa sull'argomento era quella sul numero degli aborti clandestini.
Per plagiare l'opinione pubblica, negli anni Settanta del secolo scorso, sugli aborti clandestini si davano infatti i numeri. Il Corriere della Sera del 10 Settembre 1976 li stimava essere da 1,5 a 3 milioni; in un numero de L'Espresso del 9 Aprile 1967, si parlava addirittura di 4 milioni! Mentre i quotidiani pubblicavano queste cifre assurde, uno studioso serio come il professor Bernardo Colombo, demografo dell'Università di Padova, in una ricerca elaborata con gli statistici Franco Bonarini e Fiorenzo Rossi, stimò che gli aborti clandestini, in Italia, fossero al massimo 100.000. Questo significa che le stime degli aborti clandestini che campeggiavano sulle prime pagine dei giornali dell'epoca, erano ingigantite in modo esponenziale, talvolta persino del 4000%. Chiamarle fake news, a ben vedere, sarebbe quasi un complimento!
Un'altra tesi di dubbio fondamento, per usare un eufemismo, è quella secondo cui opporsi all'aborto sarebbe da cristiani retrogradi e legalizzarlo da amanti del progresso. Peccato che tra le file antiabortiste si contino, da sempre, molti non cattolici – da Bobbio a Pasolini, con quest'ultimo che un giorno ebbe a dire: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio» -, e che i primi Stati, in epoca contemporanea, a rendere legale l'aborto furono l'URSS di Lenin, nel 1920, e la Germania di Hitler, coi nazisti ascesi al potere da neanche sei mesi quando, nel 1933, stabilirono per legge l'impegno a prevenire «le nascite congenitamente difettose». Due precedenti, converrete, non semplici da portare a modello.
Ora, l'elenco delle balle abortiste potrebbe continuare, ingrandendo il dilemma da cui siamo partiti: perché gli abortisti più incalliti sentono – da decenni – il bisogno di mentire, sparare numeri a casaccio e inventare notizie di sana pianta? Le ipotesi sul tappeto potrebbero essere tante. Nel mio piccolo, ne avanzo una: quella che l'aborto volontario stesso, come diritto o facoltà contemplata da un ordinamento giuridico, sia già – di suo – una menzogna. Una finzione che si basa sull'ipotesi che si possa tollerare la soppressione di un essere umano già formato (con le sue gambe, le sue manine, il suo cuoricino, il suo Dna unico e irripetibile) ed essere contemporaneamente contrari all'omicidio. Ipotesi che, chiaramente, non sta in piedi. Una menzogna, appunto. Che impone a quanti la sposano, e non se la sentono di ammettere l'orrendo inganno, di proseguire sulla stessa cattiva strada.
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