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Che l'obiezione di coscienza sia sotto attacco in quasi tutti i Paesi occidentali (dall'Italia della legge Cirinnà agli Stati Uniti del "mandato contraccettivo" contenuto nella riforma sanitaria di Obama) è chiaro come la luce del sole, così come è chiaro che questo attacco sta avvenendo su molteplici livelli, dal terreno politico-istituzionale a quello mediatico e culturale.
Uno degli ultimi esempi in ordine di tempo viene dalla rivista Bioethics, che il 22 settembre ha pubblicato un articolo di due influenti bioeticisti, Julian Savulescu della Oxford University e Udo Schuklenk della Queen's University (condirettore del suddetto giornale), i quali nell'analizzare il rapporto medico-paziente propongono tre cambiamenti radicali: 1) rimuovere il diritto del medico all'obiezione di coscienza; 2) selezionare tra gli aspiranti medici coloro che sono privi di remore di coscienza; 3) consentire che anche al di fuori della professione medica si possano fornire servizi (sic!) come l'aborto, la contraccezione e l'eutanasia.
Sovvertendo completamente i più elementari principi del Giuramento di Ippocrate, che vede nel medico un essere libero da condizionamenti e impegnato a tutelare la vita di ogni paziente in un rapporto di fiducia reciproca, e biasimando l'influenza della religione, i due studiosi affermano che "i dottori devono mettere gli interessi del paziente prima della propria moralità. Devono assicurare che servizi legali, benefici e desiderati vengano forniti, se non da loro, da altri. Se ciò porta a sensi di colpa, rimorso o causa il loro abbandono della professione, così sia". Senza spiegare che cosa ci sarebbe di "benefico" nel togliere la vita a un bambino nel grembo materno o a un malato, Savulescu e Schuklenk continuano il loro intervento, argomentando che "c'è una sovrabbondanza di persone che desiderano diventare medici. Il posto per discutere questioni come la contraccezione, l'aborto e l'eutanasia è a livello sociale, non al capezzale, una volta che queste procedure diventano legali e parte della pratica medica".
Per i due bioeticisti, insomma, poco importa se una pratica legale possa essere immorale. L'idea alla base di un pensiero del genere è che i medici - o qualunque altro cittadino che nell'esercizio pubblico delle sue funzioni si trovi a dover decidere sul compimento di un atto contrario alla sua coscienza (vedi quanto sta avvenendo in Italia con le "unioni civili" e i sindaci non disposti a celebrarle) - debbano diventare meri esecutori di ciò che prevede la legge, soddisfacendo ogni richiesta del paziente, anche qualora questa vada contro il bene del paziente stesso e, quindi, contro i principi che la sua professione e la sua coscienza gli chiedono di salvaguardare.
Questa tendenza a capovolgere il rapporto tra legge civile e legge morale (considerato in una prospettiva opposta rispetto a quanto efficacemente spiegato da san Giovanni Paolo II ai paragrafi 68-74 della Evangelium Vitae, dove si chiarisce tra l'altro che le leggi ingiuste, come quelle su aborto ed eutanasia, "non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza") è purtroppo sempre più diffusa, come si può constatare in una dichiarazione firmata a giugno da quindici filosofi e bioeticisti riunitisi a Ginevra presso la Brocher Foundation, nella quale si mettono nero su bianco dieci punti con concetti molto simili a quelli diffusi dalla rivista Bioethics: "I primi doveri dei professionisti della sanità sono verso i loro pazienti, non verso la loro personale coscienza", si legge per esempio al primo punto.
Nel gruppo dei quindici, oltre a Savulescu, figurano anche gli italiani Alberto Giubilini, Francesca Minerva e Maurizio Mori, tre dei più noti esponenti della Consulta di Bioetica Onlus, un'associazione di impronta laicista, pro aborto ed eutanasia. Giubilini e Minerva, in particolare, sono gli stessi studiosi che nel 2012 sollevarono un dibattito internazionale con il loro articolo sul Journal of Medical Ethics (diretto dal solito Savulescu), scrivendo che l'infanticidio, da loro ribattezzato "aborto post-natale", dovrebbe essere permesso in tutte le circostanze in cui è consentito l'aborto (una conclusione aberrante, ma basata su una premessa vera, ossia che non c'è discontinuità tra il concepito nel grembo materno e il neonato, i quali vanno ugualmente tutelati).
L'argomentazione di Giubilini e Minerva sviluppava delle idee sostenute decenni prima da Michael Tooley e dal guru dell'animalismo e dell'antispecismo Peter Singer. Nell'occasione, Mori prese le difese dei due colleghi, affermando che la loro tesi non poteva essere "scartata a priori solo perché scuote sentimenti profondi o tocca corde molto sensibili". Paradossalmente, Mori si appellava allora alla "libertà di ricerca intellettuale e scientifica": e perché da un lato invoca questa libertà, spinta al punto di suggerire l'idea che un male assoluto (l'infanticidio) possa in certe circostanze considerarsi lecito, e dall'altro chiede che i medici - coloro, si intende, impegnati a difendere un bene oggettivo (la vita) - vengano professionalmente limitati nella loro libertà di coscienza? Misteri del relativismo etico.
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