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La notizia trapelata negli scorsi giorni ha dell'incredibile: per la fine del 2017 un team di neurochirurghi italiani e cinesi ha in programma il primo trapianto di testa. Lo hanno affermato sia il chirurgo cinese Ren Xiaoping, ideatore dell' operazione, sia il neurochirurgo italiano Sergio Canavero, operante presso l'ospedale torinese delle Molinette, già autore di alcuni studi sulla sostenibilità di tale intervento. Esiste già anche un volontario che ha accettato di sottoporsi all'esperimento, Valery Spiridonov, russo, affetto da una grave malattia incurabile che provoca una progressiva atrofizzazione dei muscoli chiamata Werding-Hoffman disease.
L'operazione dovrebbe avvenire, secondo il progetto, nella Harbin Medical University, nel nordest della Cina. L'ipotesi di un trapianto di testa, che ha tra i suoi fautori appunto il neurochirurgo torinese Sergio Canavero, resta però estremamente controversa: secondo vari specialisti, infatti, questo tipo di trapianto dal punto di vista tecnico è al momento un traguardo «fantascientifico», poiché mancano ad oggi le basi sperimentali e di conoscenza che possono permettere di affermarne la fattibilità. In Italia, inoltre, la legge sui trapianti vieta quelli di cervello e di organi genitali. Diversa però la posizione della Cina, che di recente ha acceso il dibattito per l'apertura a tecniche spregiudicate, come nel caso di un gruppo di ricercatori che di recente ha scatenato le polemiche nella comunità scientifica per aver usato delle tecniche di "taglia e incolla" del Dna su un embrione. È piuttosto significativo che il professor Canavero abbia chiamato il suo progetto "Heaven". Si tratta dell'acronimo di HEad Anastomosis VENture, anastomosi cerebrosomatica, ma in inglese significa "Paradiso".
É una sorta di scalata al Cielo, questo tipo di esperimento. Certamente non mancano le motivazioni "umanitarie": salvare una mente prigioniera in un corpo malato, affetto da gravi patologie invalidanti come quelle neurologiche, o da tumori devastanti e inguaribili, ma l'ipotesi di spostare una testa- con il cervello e tutto il suo deposito di emozioni, sentimenti, ricordi su un altro corpo apre delle prospettive assolutamente inquietanti. Giusto duecento anni fa una ragazza inglese, Mary Shelley, dava alle stampe un suo romanzo, Frankenstein, il cui sottotitolo, il moderno Prometeo, era tutto un programma. Apparteneva a quella fiction di tipo gotico che ebbe pieno sviluppo e produzione durante l'800 romantico, ma rappresentava anche una riflessione fondamentale sulla figura dell'uomo di scienza e sull'importanza del suo ruolo nel cammino del progresso per il miglioramento delle condizioni di vita della comunità umana.
Rileggendo le pagine di questo romanzo viene alla mente l'espressione playing God, ovvero «giocare alla divinità» o «fare la parte di Dio», un'espressione ormai usata da molti professionisti nel campo della bioetica. Essa richiama sicuramente a quel dibattito ormai quotidiano sul vero significato della difesa della vita e della sua dignità. L'atto dell'interpretare Dio prendendone il posto rivela la piena coscienza della volontà, del voler essere al posto di Dio con tutto se stesso. In una nota parodia cinematografica, il dottor Frankenstein, di fronte all'evidenza della fattibilità tecnica del suo progetto di realizzare una creatura a partire da pezzi di cadavere assemblati chirurgicamente e in cui viene trasmessa l'energia elettrica, ritenuta l'elemento vitale della materia, esclama: «Si può fare!» É l'imperativo tecnologico cui deve rispondere la scienza moderna: se è tecnicamente possibile, perché non farlo?
L'etica chiede invece che si diano le ragioni di questi atti, e pone una domanda cruciale: ciò che è tecnicamente fattibile, è anche moralmente, o almeno umanamente, lecito? Certo, le motivazioni che portano a questo tipo di sfide sembrano umanitarie: dare speranza a chi soffre di gravi malattie, ma la prospettiva di un simile "giocare" con la tecnica porterebbe inevitabilmente a solleticare il desiderio di eternarsi. Mettere il proprio cervello in un corpo nuovo, magari giovane e prestante, per riavere tanti anni a disposizione, conservando però la propria memoria e la propria identità. Ma sarebbe davvero così? Ci stiamo avvicinando all'Overreaching, all'eccesso. Quello che Mary Shelley aveva immaginato nel suo romanzo di duecento anni fa sembra diventare oggi una terribile realtà, quella di una scienza che non ha alcun rispetto verso la vita e rischia di procurare morte e distruzione e non benessere e armonia. La Shelley riteneva che la cosa più spaventosa del suo romanzo fosse non il mostro uscito dalle mani di Victor Frankenstein, scienziato, ma il delirio di onnipotenza dello scienziato, che non sa porre alcun freno alla sua ambizione.
Mary Shelley aveva cominciato a chiedersi quale futuro ci sarebbe potuto essere se i morti avessero avuto davvero la possibilità di ritornare in vita, come avrebbero vissuto e quali sarebbero state le conseguenze morali e psicologiche, nel momento in cui si fosse stato messo in pericolo il confine tra la vita e la morte. Inoltre il potere che lo scienziato avrebbe ottenuto da questi esperimenti sembrava farlo diventare sempre più sicuro di sé fino al punto di pensare di poter davvero avere un potere sulla vita e sulla morte. Ma è questo il vero scopo della Scienza? O non è forse mettersi in primo luogo in contemplazione della natura, per come essa realmente è?
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