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L’ABORTO E’ UNA FERITA PER LA DONNA, NON UN AIUTO
La Sindrome post-aborto è una realtà che si cela dietro l’affermazione di un falso diritto
di Marianna Ninni

Sono sempre più numerose le donne che dichiarano di soffrire di sindrome post-aborto. Fenomeno studiato già da diversi anni negli Stati Uniti, gli studi sulla PAS si stanno di recente diffondendo anche in Italia. Sebbene in tanti tendano a negare l’esistenza di questa sindrome descrivendo il fenomeno come l’ennesimo tentativo da parte della Chiesa o delle istituzioni cattoliche di voler ledere o condizionare la libertà di scelta della donna che decide di interrompere volontariamente la gravidanza, non si possono di certo negare le prime importanti testimonianze. Secondo i dati recenti, difatti, ammonta circa al 62% il numero delle donne che hanno dichiarato di soffrire di questa sindrome.
Secondo l’art. 4 della legge numero 194 del 1978, può ricorrere “all’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsione di anomalie o malformazioni del concepito…”.
Ci persuadiamo, quindi, di conoscere bene quelle che sono le “condizioni” che fanno liberamente scegliere l’aborto, dimenticando, facilmente quanto questo articolo non specifichi in alcun modo quali siano le reali motivazioni “economiche, sociali o familiari” che possano davvero permettere alla donna di scegliere l’aborto come “soluzione necessaria”. Ci si ritrova, così, di fronte ad un vero marasma secondo cui tutto è concesso e chiunque possa ricorrere per qualsiasi ragione all’aborto. Ci sono donne che scelgono di abortire perché troppo giovani, ventenni convinte di non poter rimanere incinta al primo rapporto sessuale occasionale o sicure che a loro non sarebbe mai potuto capitare; ci sono donne che hanno una reale e oggettiva precaria condizione economica e sono impossibilitate persino a sfamare i loro bimbi; ci sono donne che rincorrono ideali di carriera che non possono in alcun modo essere intaccati dall’arrivo di un nuovo bambino, ci sono donne che vengono abbandonate dal compagno con cui convivono subito dopo l’insorgere della gravidanza e ci sono donne che – questo sembra essere il caso più comune -  dichiarano di non voler un bambino dal compagno con cui stanno. Una situazione drammatica che testimonia quanto nei rapporti umani manchi una progettualità di mettere su famiglia soppiantata da un edonismo dirompente e da una superficialità per cui all’incoscienza di avere rapporti occasionali si aggiunge anche una sempre più diffusa incoscienza di mettere al mondo qualcun altro.
«In un contesto sociale normale o protetto, come poteva essere quello di 30 anni fa, la donna che rimaneva incinta manifestava dei timori. C’era paura, com’è normale che ci sia di fronte ad un compito così grande che consiste nel portare avanti la vita di un altro. Ma queste paure, in molti casi, venivano compensate dall’affetto familiare e dal sostegno del marito. Oggi i rapporti sessuali cominciano dai 14 anni in su e sono rapporti non protetti. Queste ragazze sono convinte che a loro non succederà mai e si coprono dietro una doppia negazione. La prima negazione è quella secondo cui l’atto sessuale porti al concepimento e la seconda negazione è quella che si manifesta nei primi mesi di gravidanza. Si arriva quindi a pochi giorni dal terzo trimestre e si deve decidere in fretta. Il panico prevale sulla razionalità e la scelta più ovvia è quella di abortire. Si capisce quanto in tutto questo manchi, non solo una progettualità, ma persino un reale sostegno psicologico» ci spiega Benedetta Foà, psicologa che da anni si occupa dello stress post-aborto,  co-autrice del libro Maternità interrotte.
Qualunque sia la ragione che spinge queste donne ad abortire, molte manifestano una sofferenza inspiegabile, un senso di vuoto, un dolore con cui non riescono a fare i conti. «La tematica della sindrome post-abortiva, vale a dire il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all’aborto volontario, la rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l’azione umana tradisce l’innata vocazione al bene dell’essere umano, che essa testimonia» diceva Papa Bendetto XVI ai partecipanti dell’Assemblea Plenaria della “Pontificia Accademia per la Vita”, il 26 febbraio 2011. Ed è per far fronte a questo disagio irrisolto che, da diversi anni, sono nati dei percorsi, dei cammini di fede per la guarigione spirituale e psicologica dopo l’aborto volontario.
Uno di questi metodi è quello ideato da Benedetta Foà e prende il nome di Metodo Centrato sul Bambino. Sviluppato attraverso otto incontri, lo scopo principale di questo metodo è instaurare una relazione tra la mamma/papà e il bambino attraverso delle tappe e dei compiti ben precisi per elaborarne il lutto e lasciarlo andare: il primo è quello di dare un nome al bambino, il secondo consiste nell’acquistare un oggettino che serve per far comprendere alla madre che il figlio è altro da sè e togliere la sensazione di con-fusione (nei primi due mesi di gravidanza, difatti, il bambino è totalmente con-fuso con la mamma, è tutt’uno con la mamma e, a livello psicologico, una mamma che abortisce non lo ha mai visto ma pensa di avere ucciso una parte di se stessa); il terzo compito è dedicato alla scrittura di una lettera per esprimere tutti i sentimenti irrisolti; il quarto si sviluppa intorno a delle esperienze immaginative attraverso cui il genitore incontra simbolicamente il figlio, lo riconosce e lo lascia andare; con il quinto compito si seppellisce l’oggetto comprato perché non ha più senso averlo con sé. È proprio attraverso questa tappa che si lascia andare davvero il bambino. Il percorso si conclude con una Santa Messa per il bambino e con la preghiera che questi venga accolto dalla bontà di Dio.
È ovvio, continua la Dott.ssa Foà, che quando parliamo di aborto dobbiamo fare una distinzione. «C’è qualcuno che, dopo l’evento aborto chiude la sua porticina e non ci pensa più; c’è qualcuno che chiude la porticina e dopo molti anni succede qualcosa e tutto si riapre procurando panico e c’è qualcun altro che il mese dopo l’aborto è sul limite del suicidio. In tanti ricorrono al mio aiuto dopo che sono passati 30 anni da questa scelta».
Una consapevolezza che, di conseguenza, può emergere dopo diverso tempo quando si ri-apre quella ferita irrisolta a causa di un qualsiasi evento scatenante. In certi casi può trattarsi dell’arrivo di un nuovo figlio, in altri casi può insorgere con l’arrivo della menopausa, come mi spiega Valeria D’Antonio, psicologa che collabora con l’apostolato La Vigna di Rachele, quando queste donne devono fare i conti con quella scelta che le ha spinte a rinunciare all’unico bambino della loro vita. In altri casi ancora, questo disagio emerge anche in molti uomini. Spesso perché responsabili di aver spinto molte donne ad abortire, oppure perché privati dalle loro compagne della possibilità di vivere il dono della paternità. Alla figura dell’uomo è dedicato il prossimo seminario della Dott.ssa Foà Un papà in lutto che si terrà a Medjugorje dal 15 al 19 giugno.
Ad organizzare numerosi seminari ci sono anche i volontari della Vigna di Rachele. Valeria D’Antonio ci racconta un’esperienza simile a quella di Benedetta Foà: «La Vigna di Rachele si occupa della guarigione spirituale e psicologica dopo l’aborto soprattutto volontario. Nasce negli Stati Uniti quasi 30 anni fa mentre è in Italia da soli 4 anni. A portarla in Italia è stata Monika Rodman. Io sono psicologa e nell’equipe c’è sempre una psicologa o una psicoterapeuta, un sacerdote e alcune ex-partecipanti a ritiri precedenti. Facciamo dei ritiri spirituali di un weekend, dal venerdì alla domenica, e sono dei ritiri molto intensi studiati per questa tematica. Il metodo principale è quello delle scritture viventi, che consiste nella lettura di brani evangelici o biblici su cui vengono fatte delle meditazioni. Il sabato mattina è dedicato al racconto delle storie personali. Molto spesso le cause vanno ricercate anche prima, nell’infanzia, nella vita in famiglia e dedichiamo tutta la mattina del sabato all’ascolto di queste storie. Un altro momento importante è quello in cui si esprimono  i sentimenti irrisolti o la rabbia legati all’aborto attraverso la scrittura di una lettera in cui si confessano le emozioni. Si tratta di un cammino che propende verso il perdono attraverso cui cerchiamo di far capire ai partecipanti che non devono farsi carico del peso di questa rabbia ma devono affidarla ad un Altro. Poi viene costruita una relazione seguendo il processo del lutto: si racconta la storia, si elaborano le emozioni e ci si ricollega con questo bambino perso a cui viene dato un nome. Il ritiro si conclude la domenica. Prima della messa c’è una funzione commemorativa in cui vengono lette le lettere ai bambini, viene fatto un gesto simbolico di affidamento che fa parte del percorso di elaborazione del lutto, e si arriva finalmente a lasciarli andare affidandoli ad una misericordia divina».

Anche in questo secondo caso, le persone che scelgono di seguire questo percorso di fede, lo fanno perché sono in una condizione di malessere che si trascinano dietro da anni. Quel senso di vuoto irrisolto spinge donne e uomini a fare ricerche su internet, a interrogarsi sulla sindrome post-aborto e li motiva a cercare delle risposte. Sono in tanti a maturare molto tardi la consapevolezza delle conseguenze che un atto del genere racchiude in sé. Se all’inizio, difatti, matura vince la convinzione che non c’è nulla di male e che niente cambierà, che tali siamo e tali resteremo, in seguito all’aborto in molte donne e uomini qualcosa crolla. È quello che succede quando la menzogna «dell’io sarò la stessa persona si sgretola» e le donne capiscono che «che prima c’era un bambino che adesso non c’è più».
 
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana