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Da «ab-orior», cioè «arrestare nel crescere», l’aborto è la fine della vita di un essere umano, provocata volontariamente, prima della nascita. Deroga dunque dal principio dell’intangibilità della vita umana. Può avvenire secondo le leggi locali, che variano da nazione a nazione. In alcune nazioni l’aborto è illegale. Può essere eseguito con farmaci o con metodiche chirurgiche, o combinando i due sistemi. Il metodo farmacologico implica l’espulsione dell’embrione o del feto che non può sopravvivere fuori dall’utero dopo assunzione di farmaci. Un modo particolare e raro perché vietato in molti Paesi è l’aborto a nascita parziale cioè quando viene preferito far morire il feto dopo averlo estratto in parte ma prima che abbia fatto il primo respiro e duqneu non ancora dichiarato ufficialmente “nato”. L’aborto in Italia è regolato dalla legge 194 del 1978, che lo permette nei primi novanta giorni, e per motivi legati alla salute (sia fisica che psichica) della donna anche dopo i novanta giorni fino a quando il feto non ha possibilità di vita autonoma: oggi la medicina permette la sopravvivenza del feto dalla ventiduesima settimana di gestazione seppur in una percentuale bassa di casi.
La ragione
Da quale contesto sorge il problema-aborto? Dall’incontro di due poli: solitudine e autonomia. La prima è la fatica personale che non trova un appoggio sociale e familiare, la seconda è la teorizzazione che la scelta in solitudine è il massimo della libertà. Esiste una chiara difficoltà nel parlare dell’aborto, tanto che anche chi lo reclama come diritto difficilmente lo spiega nei dettagli. Infatti censurare che il feto è un individuo vivo non è possibile; e questo ben è inteso dalla maggioranza delle donne; il rischio per loro di riportare conseguenze a livello psicologico appare maggiore – o comunque non inferiore –che nelle donne che danno alla luce un bambino. Inoltre, l’aborto farmacologico non sembra essere tanto più «gradito» alle donne che lo hanno eseguito rispetto all’aborto chirurgico: è introdotto per evitare l’ospedalizzazione delle donne, e questo ne accentua la privatezza privatizzazione ma la privatezza dell’aborto facilita la prevenzione? E la prevenzione occorre: ma il livello sociale e culturale di aiuto nella prevenzione dell’aborto è carente in molte realtà sociali e nazionali.
Come ci interroga umanamente? Condannare l’aborto senza impegnarsi per superarlo è insufficiente. D’altronde l’aborto è una reale anomalia: il fatto stesso che anche chi è favorevole a una sua legalizzazione raramente lo mostri e ne parli in dettaglio è segno dell’imbarazzo e della difficoltà psicologica che provoca; ed è l’unico caso nella medicina in cui (dato che si fa per curare la donna da un possibile rischio per la sua salute) il/la paziente si autodiagnostica la malattia e si autoprescrive la cura. Il corpo del feto dopo l’aborto dovrebbe ricevere lo stesso trattamento destinato a qualunque altro defunto, e associazioni di medici e famiglie chiedono questo. Nel caso di aborto volontario la donna può non avere interesse alla sepoltura del feto; questo non significa che – non essendo il feto parte genetica del corpo della madre – non debba essere trattato con massima dignità.
Il sentimento
Non si può parlare sull’aborto, se non si accetta di mettersi in gioco, di guardare con passione la vita appena concepita, e con passione la madre se si trova in difficoltà e necessita di aiuto. E non si può concentrare il dibattito-aborto sulle tecniche, come se ce ne fosse una «meno grave» e come se avessimo accettato l’aborto come un dato di fatto inarrestabile, di cui ora si discute sui dettagli; non si può nemmeno fare fronte solo con le leggi, ma occorre anche una nuova cultura. Una cultura sociale che parli di disabilità in modo ampio e senza censure, che metta al primo posto nelle leggi finanziarie le famiglie con disabilità, e un’educazione alla bellezza della vita concepita. Scuole di educazione prenatale a superare l’attuale impostazione censoria possono aiutare. È fondamentale che il mondo culturale affronti il problema della «cultura del rifiuto», che colpisce le donne incinte che si sentono rifiutate (per le quali esistono centri di aiuto alla vita ma ancora scarsi e da supportare) e che colpisce la vita umana quando non è prevista o non è perfetta.
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