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Proprio in questi giorni è stato inaugurato a Roma il centro "Exit",
nato dalla collaborazione di neonatologi e ostetrici del Policlinico
Gemelli e del Bambino Gesù. Exit è la sigla che indica una tecnica con
cui i medici intervengono sul feto (l’exit viene eseguita quando il feto
ancora riceve sangue dalla mamma attraverso la placenta) poco prima
della nascita effettiva per favorire la cura di certe patologie
congenite, e che già in alcuni Paesi è impiegata con successo. È
un’ottima notizia, perché la Exit e le varie forme di chirurgia fetale
non solo mostrano il bimbo non ancora nato come paziente – dunque è
culturalmente un passo importante –, ma anche perché realmente, con
grande soddisfazione delle famiglie, riesce a salvare delle piccole vite
che potrebbero avere un destino triste.
Ottima notizia, anche
perché invece sembra che le risorse (e l’attenzione dei media) in ambito
prenatale siano indirizzate in stragrande parte verso la diagnostica
prenatale genetica. Entra per esempio in commercio in questi giorni in
Svizzera l’ennesimo test per individuare prima della nascita chi è Down e
chi non lo è. Non ne sentivamo la mancanza, anche perché sistemi per
individuare i bimbi Down non mancano. Certo, ci sono mamme ansiose per
le quali avere conferma che il figlio non è malato serve a rasserenarsi;
ma quanti padri e madri usano test genetici prenatali nell’ottica quasi
routinaria di abortire se il figlio non è "conforme"? Si moltiplicano i
test genetici prenatali; e salta all’occhio l’impiego di risorse su
risorse per questo scopo, mentre invece in molti Paesi le associazioni
di persone con disabilità varie lamentano tagli su tagli negli
stanziamenti sociali e nella ricerca per aiutare chi è malato, chi ha
malattie rare, chi ha familiari portatori di handicap. Anche chi
sostiene la liceità dell’aborto trova difficile a questo punto sostenere
che l’aborto sia una scelta libera: quale libertà può esserci se
l’alternativa di "tenere" il bambino non solo non trova un sostegno
economico, ma neanche culturale o sociale? Eppure la medicina non ha
difficoltà a riconoscere che il feto è un paziente e va curato; e
probabilmente se questi sforzi e questa consapevolezza venissero
assecondati, tutta la società ne trarrebbe vantaggio.
Il
problema che ci dovremmo porre, viste queste notizie, è duplice.
Riguarda in primo luogo l’allocazione delle risorse e quanto sarebbe
auspicabile che gli Stati dedicassero più attenzione alle cure che
all’alba della vita favoriscono la vita stessa, come fa il nuovo centro
di terapia fetale romano. Il secondo punto riguarda la cultura che si
respira in occidente riguardo la vita prenatale. È una cultura che
unisce disinformazione, paura e abbandono che mischiati senza cura
stuzzicano la parte emotiva dei futuri genitori. Ma la paura dovrebbe
essere combattuta culturalmente da una società che mostri con i suoi
strumenti potenti di non classificare i cittadini in categorie a seconda
della malattia; mentre l’abbandono di chi ha maggiormente bisogno non è
accettabile in un mondo che si dice moderno ed evoluto.
Che
segnale forte sarebbe, allora, introdurre un percorso virtuoso di
diagnostica prenatale in tutti gli ospedali e in tutti gli ambulatori
europei, per il quale alla diagnosi di una malattia genetica fetale la
famiglia venisse indirizzata automaticamente verso chi la cura prima e
dopo la nascita e allo specialista della malattia in questione; e se i
genitori volessero, anche verso chi questa malattia già la vive nella
sua famiglia, per uscire dall’emotività e trovare una strada al
desiderio di vita e di amore. Se poi si capisse che c’è tanta gente che
semplicemente vuole più aiuto per accogliere più figli, e si
indirizzassero lì le risorse, saremmo davvero sulla strada giusta.
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