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TROPPO FUMO ATTORNO A UN FARMACO
Si parla di una medicina, ma si vuole veicolare l'idea che la droga sia utile
di Carlo Bellieni

Tante mani abbiamo visto alzarsi in segno di esultanza – ma anche di protesta – alla notizia che nuove sostanze per il trattamento del dolore sono da oggi prescrivibili, a certe condizioni, dai medici di famiglia in Toscana. Qual è il motivo di tanta passione? Semplice: le sostanze derivano dalla cannabis, la pianta che troppi usano come droga.
Così dunque da un lato assistiamo a un allarme legato al fatto che si traggono farmaci da una pianta incriminata per i danni che procura alla salute, dall'altro c'è chi si rallegra ritenendo che l'uso medico di queste sostanze sia il preludio a una prossima liberalizzazione della droga. Ma medicina e droga non vanno certo a braccetto: non è infatti lo "spinello" che cura il dolore ma una sostanza tra le cento contenute nella cannabis, un alcaloide detto "cannabinoide", che avrebbe un'azione di supporto alla terapia del dolore già attuata con altri farmaci più sperimentati.
Questa sostanza viene isolata, purificata, dosata e solo allora è somministrata al paziente. Non c'è motivo per demonizzare una sostanza solo perché alcune persone fanno un uso sbagliato della pianta da cui deriva: anche la morfina cura il dolore, e anche la morfina non viene somministrata in ospedale col narghilè con cui si respirano i fumi d'oppio ma in apposite dosi e con le opportune vie.
Sarebbe scandaloso non usare trattamenti contro il dolore dove sia dimostrata la loro efficacia. Ma in questa partita dei farmaci a base di cannabinoidi c'è molto più che questo semplice ragionamento. Tanto per capirci, si parla di «cannabis terapeutica» ma è una definizione ingannevole che può far inopportunamente credere che sia la cannabis e non un suo derivato purificato a servire alla medicina.
Sarebbe come dire "papavero terapeutico" solo perché è da lì che si estrae la morfina, o "catrame terapeutico" solo perché dal catrame sono estratti alcuni farmaci. È fin troppo facile, scientificamente sbagliato e perciò pericoloso proporre l'equivalenza tra la cannabis che contiene alcune sostanze buone e lo spinello che di conseguenza non farebbe male.
No, lo spinello non fa per niente bene. E se non bastassero le innumerevoli prove scientifiche già prodotte, lo dimostra una volta in più l'ultimo numero della rivista Addictionspecializzata nel settore delle dipendenze: «La ricerca scientifica degli ultimi 20 anni – vi si legge – mostra che l'uso della cannabis aumenta il rischio di incidenti, che può produrre dipendenza, e che esiste un'associazione consistente tra l'uso regolare di cannabis e conseguenze psicosociali negative così come sulla salute mentale».
L'equazione tra l'idea di farmaco e il fatto che non possa far che bene è culturalmente insidiosa, anzitutto perché le medicine se non sono assunte dal paziente giusto e nella dose corretta fanno male quasi tutte, e poi perché, come spiega un recente documento dell'American Academy of Pediatrics, è lo stesso "fumo" a far male. Inoltre è solo il principio attivo detto cannabinoide che ha qualche effetto antidolorifico, al contrario di tutte le cento sostanze respirate con lo spinello (che i medici di certo non prescrivono…).
Infine, va ricordato che "antidolorifico" significa "contro il dolore fisico", un concetto che non ha niente a che vedere con la tristezza, la solitudine, la depressione e tutti i motivi più o meno seri o futili per cui ci si droga.
Ai ragazzi va ripetuto con chiarezza di non lasciarsi blandire dalla propaganda di chi vuole lasciarli con i loro guai irrisolti concedendogli al massimo la "libertà" di drogarsi nella loro stanzetta mediante una confusione strumentale di una medicina nuova con l'uso indiscriminato di un'erba che può provocare solo guai.
Una sostanza tossica peraltro quasi sempre assunta non certo su consiglio di amici che sanno affrontare davvero i problemi, dei genitori o di un medico che sa ben distinguere tra una molecola (il cannabinoide) contro il dolore estratta da una pianta e una foglia d'erba che si fuma per la strada, che fa sentire "come gli altri", ma che li lascia dolorosamente soli.

 
Fonte: Avvenire, 03/02/2015